Franco Pedrina

Flaminio Gualdoni

Testimonianza per Pedrina

Ispida, ossuta, ma anche capace di tenerezze definitive, è la pittura che Franco Pedrina ha condotto in questi ultimi anni.
Lavora, da sempre, a ridosso dell’ormai antico problema del figurare, dell’avvertirsi e riconoscersi nella trama di percezioni, e sensazioni: non, però, per riverberarsi, esibendosi per interposta visione. Tantomeno per raccontare e raccontarsi.
Il suo è passo di visionario, eccitato ed esercitato in scambi serrati di sensibilità e pensiero con i materiali del vedere, che giunge a compimento proprio quando, ormai sfibrata, svuotata di densità carnale, l’immagine si travisa, si perde, riprende a lievitare in sostanziato corpo di pittura. Rami, angurie, certo, e gabbiani, girasoli… intuiti alla soglia di un disfacimento già fisico,della perdita di consistenza: che si danno in crescite ostinate, e impronte macerate, su queste tele: le quali non luoghi di rappresentazione sono, ma di addensamenti e depositi, spazi di un darsi organico dell’immagine, di una pittura che conosce solo tempi e modi suoi propri, naturali. Non è, quella di Pedrina, una pittura di bellezza. Semmai di ossessione di bellezza.
Quei verdi e bruni e grigi come virati, inaciditi, rinterzati ora da azzurri e bianchi filamentosi, ora da gialli e rossi spossati, ora da cobalti intensi, sopratono - che è come si disperdessero e ritrovassero, in continuo - questo dicono.
Non c’è eleganza, non decoro formale di cui si possa tener conto. Invece, lecito e decoroso è assaporare gli splendori antichi e un po’ appannati delle paste, e il crepitare sommesso aspro talvolta, di certi veli, di certe trasparenze: in cui s’assesta l’intensità, la forza, la grazia sperduta anche, di queste pitture.
Non ha rabbie, Pedrina, e neppure retoriche zuccherine. Si immerge tutto in questo far di pittura pudico, schivo anche a se stesso, e limpido, però, di netta e non banale qualità.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, maggio-giugno 1984)

 


La natura come ossessione

Ecco un’antologica di Franco Pedrina, veneto di Grantortino (1934), che ne ripercorre la vicenda dagli esordi, risalenti al 1966. Pittore di figure che subiscono, nella reinvenzione artistica, metamorfosi che hanno del visionario, Pedrina predilige i temi umili: fiori secchi agli inizi, ceppi e grovigli vegetali nella prima maturità, poi i girasoli e le angurie nei primi anni 80 e gli interni con nature morte, meditativi, di oggi. Pedrina dipinge in modo che pare, al primo sguardo, concitato, con quelle materie secche, aspre, con i bianchi e bruni mossi che paiono inghiottire, sino alla dissoluzione, i gialli, i verdi, i celesti dei soggetti. Certo è una pittura pudica e orgogliosa, che nulla concede alla facile sensibilità. Anzi, essa è ben attenta a bilanciarsi in composizioni precise, dai nitidi equilibri interni. Ma non è neppure penitenziale, ispirata a chissà quale rigorismo. Una «pittura simpatica», scriveva Buzzati nel ’68, in cui senti l’amore di Pedrina per queste visioni, e una cordialità , una tenerezza che trapela dalle dolcezze improvvise dei toni del colore, e dalla partecipazione emotiva totale, senza remore, che l’artista vi lascia affiorare.

(in «Corriere Della Sera», 7 maggio 2001)

 


Franco Pedrina. Per pittura

“Pittura simpatica”, scriveva Dino Buzzati trentacinque anni fa a proposito dei quadri di Franco Pedrina, ai tempi di una giovinezza espressiva orgogliosa e già autorevole. Simpatica, beninteso, non perché rilassata in protocolli di gusto che declinano compiacenze sensibili, bensì perché presuppone, nell’artista, un’adesione e un risentimento del motivo così inflessibilmente totali da fare della visione davvero una condizione esclusiva, e una misura non eludibile, di coscienza.
guardo, nella luce candida di una Brera autunnale, i lavori di questi ultimi anni. Sono lavori duri, ossosi, poco loquaci, i quali ancora paiono impaniati in un rapporto emotivo con il loro autore che non fa mostra di allentarsi. Lavori che abitano lo studio perché, in fondo, perennemente insoddisfatti, ignari di perfezione e compimento, vocati a un lavorio teoricamente illimite; l’ansia, quasi, da parte dell’artista, di interrompere questo filo genetico, questo respirare con e in, questo premere e agitarsi e formarsi in cui la coscienza di chi fa, e dell’immagine stessa, trovano una consonanza definitiva, ignara di conclusione.
Pedrina lavora con una sorta di furia silenziosa e prolungata, quadro su quadro, in perfetta cecità di esiti. A proprio agio nell’identità storica della pittura, della sua ragion d’essere soprattutto, pensa in termini di quadro: ogni quadro un tutto possibile, una vicenda esclusiva e definitiva, un amore e un’agonia. E in termini di genere: l’innesco sensibile, il rimuginio lungo e l’introiezione in una misura tutta effettiva ma per via di scrutinii intellettuali (si diceva negli anni Cinquanta di “partecipazione”), la regola di genere accolta senza paradigma, con figura e natura morta e paesaggio a far metro a tutto, perchè Pedrina pensa sempre, comunque, in termini di corpo/paesaggio.
L’immagine prende forma nella coscienza ed è nucleo impulsivo del dipingere primo, fatto di una sorta di concussione carnale delle forme, delle sostanze, delle luci, in cui il colore si stende turgido e per spessori sensuosi, come in una possessione erotica che corre, fremente, a una conclusione.
Ora la pittura è lì, davvero corpo altro ma ancora grondante dell’autore: che può guardarla e finalmente pensarla.
Da qui, dal momento decisivo del ripensamento, inizia il corso pittorico autentico di Pedrina. Lentamente, cautamente, per pause lunghe e sguardi sempre più concentrati, l’artista riprende rapporto con la pittura. Ne dilava e spossa le materie, le facilità retoriche del colore, ne scava il corpo fino a prosciugarlo in un’essenzialità primaria, fatta ora di aliti, umori e aromi, come sindoni dello splendore iniziale ma di quello, in ogni caso, eredi: per via di una grazia slontanata, di una sorta di pudore mormorante ma arguto, non smemorato di sensualità, infine, di una memoria raccolta e concentrata e posseduta davvero, ignara di nostalgia.
E’, di questo tempo secondo e cruciale del fare, importante notare il ricomporsi dell’immagine come per via di nervature grafiche primarie, che mantengono in tensione, in squilibrio sottile e mai preventivo, la composizione: di comporre trovato, si dovrebbe dire, anziché cercato, e soprattutto di un formare per consonanza fisiologica che si fa ragione struttiva di pittura.
Ed è parimenti importante, naturalmente, la qualità di un colore che da matière sostanziata si fa sempre più colore/luce, clima mentale ed affettivo, capace di una sua diaccia bellezza che è, nel tempo recente, carattere dominante nella pittura di Pedrina.
Avverti che nell’artista agisce un continuo lasciar correre, poi riprendere e filtrare, come tenendo a bada, una sensualità prorompente, una facoltà piena di immedesimazione alla situazione sensibile. Ma avverti anche una sorta di etica del fare che gl’impone di non farsi scudo dell’immediatezza di facciata, perché non l’effusione, ma il pensiero del senso può farsi poesia; perché non la lettura prima, di tatto e di pelle, ma il corso lungo e distillato dell’emozione, è rapporto necessario con l’immagine.
E senti, infine, che egli non può fare a meno di pensare che la pittura è ancora un luogo sacrato, un altro dal mondo, cui non devi accollare solo l’erotica del fare, ma in cui devi trovare il punto in cui il senso comincia ad avvertire anche la propria perdita, il mistero definitivo: ciò senza cui noi, non solo la pittura, non avremmo senso e destino.

 

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Montrasioarte, maggio 2004)

 

 

 

 


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